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Centro di Accoglienza Padre Nostro - ETS
Fondato dal Beato Giuseppe Puglisi il 16 luglio 1991. Eretto in ente morale con D.M. del 22.09.1999
Centro di Accoglienza Padre Nostro Onlus

Se ognuno fa qualcosa…

data articolo 01/07/2007 autore Il Cenacolo categoria articolo RASSEGNA
 
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Articolo de Il Cenacolo
Articolo de Il Cenacolo

QUANDO IL PUBBLICO MINISTERO Lorenzo Matassa ha concluso la requisitoria nel processo nei confronti dei quattro responsabili della morte dì padre Pino Puglisi, ha detto queste parole: «Ricordate, giudici della Corte d'Assise, cosa raccontò "u cacciatitri" (il cacciatore, soprannome di Salvatore Grigoli assassino del sacerdote, ndr. ) riguardo a ciò che avvenne dopo che don Giuseppe Puglisi fu ucciso? L'assassino riferì che lo Spatuzza Gaspare gli sottrasse il borsello e si impossessò delle marche della patente. Singolare assonanza con ciò che è scritto nel Vangelo secondo Giovanni dopo la crocifissione di Nostro Signore Gesù: "Si sono divise tra loro le mie vesti". Ma questo, Spatuzza Gaspare e i suoi correi non potevano saperlo». Come non potevano sapere che, un paio di anni prima, questo straordinario prete palermitano, di cui la chiesa siciliana ha da tempo aperto la causa di beatificazione, aveva scritto: «La testimonianza cristiana è una testimonianza che diventa martirio. Infatti testimonianza, in greco, si dice martyrion. Dalla testimonianza al martirio il passo è breve, anzi è proprio questo che da valore alla testimonianza». Essa servirà «a dar fiducia a chi, nel profondo, conserva rabbia nei confronti della società che vede ostile... A chi è disorientato, il testimone della speranza indica non cos'è la speranza, ma chi è la speranza. La speranza è Cristo, e si indica attraverso la propria vita orientata verso di Lui».

UN PRETE CHE SCAVA NELLE COSCIENZE

Figlio di un calzolaio, padre Pino Puglisi - Treppì come lo chiamavano i suoi ragazzi per le iniziali formate da 3P - era nato il 15 settembre del 1937 a Romagnolo, una borgata palermitana a pochi passi da Brancaccio, il quartiere di cui diventerà parroco e nel quale nascerà il suo assassino. La sua vocazione matura a ridosso del diploma magistrale. Quando è ordinato prete, lavora nella borgata di Settecannoli prima di diventare parroco in una frazione di Corleone. Sarà il cardinale Pappalardo a spostarlo a Brancaccio, nella periferia orientale della città. Il posto lo conosce bene, conosce bene la mentalità, la gente e il suo difficile modo di tirare avanti. Sa che il problema principale è il lavoro e che, sulla sua mancanza, la mafia mette facili radici con le sue allettanti proposte. La formazione, l'istruzione potrebbero far molto, ma a Brancaccio, fino a pochi anni fa, non c'è neppure la Scuola Media. Don Puglisi comincia allora a lavorare coi più giovani, coi ragazzi: è convinto di essere ancora in tempo per formarli e per dar loro dignità e speranza. Per i suoi "figli" fonda il Centro "Padre nostro". «Coi più piccoli - diceva - riusciamo a instaurare un dialogo. I più grandicelli sfuggono, sono attirati da altre proposte». Il suo assassino racconterà nella deposizione davanti ai magistrati: «Cosa nostra sapeva tutto. (Che andava) in Prefettura e al Comune per chiedere la scuola media e fare requisire gli scantinati di via Hazon. Sapeva del Comitato inter-condominiale, delle prediche. C'era gente vicina a don Pino che andava in chiesa e poi ci veniva a raccontare». Il piccolo e mite prete comincia a dar fastidio. Lavora in silenzio, non fa clamore, non va sui giornali, ma scava nelle coscienze, costruisce legami, apre prospettive diverse. Cominciano allora gli "avvertimenti": una ad una vengono incendiate le porte di casa dei membri del comitato. Poi le minacce, sempre più dirette, e il pestaggio di un ragazzo del Centro. Ma ad ammazzare un prete, fino ad allora, la mafia non si era ancora spinta. Ma quel prete... Così arriva la condanna. Il killer viene allertato. È la sera del 15 settembre 1993.«Lo avvistammo in una cabina telefonica. Era tranquillo. Che fosse il giorno del suo compleanno lo scoprimmo dopo. Spatuzza gli tolse il borsello e gli disse: Padre, questa è una rapina. Lui rispose: Me l'aspettavo. Lo disse con un sorriso... Quello che posso dire è che c'era una specie di luce in quel sorriso... lo già ne avevo uccisi parecchi, però non avevo ancora provato nulla del genere. Me Io ricordo sempre quel sorriso, anche se faccio fatica persine a tenermi impressi i volti, le facce dei miei parenti. Quella sera cominciai a pensarci: si era smosso qualcosa». Nei mesi immediatamente precedenti al suo delitto, bombe della mafia erano esplose a Roma in via Fauro (14 maggio), a Firenze nei pressi degli Uffizi (27 maggio), a Milano in via Palestre e ancora a Roma, in quella stessa notte, davanti alla chiesa dì San Giorgio al Velabro (27 luglio)... In tutto 10 morti (tra cui due bambini), 95 feriti, danni per miliardi al patrimonio artistico. Si consumava così, dopo le stragi di Capaci e di Via D'Amelio che avevano coinvolto nel 1992 i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, un altro drammatico momento della storia italiana. Il 9 maggio 1993, ad Agrigento, Papa Giovanni Paolo II aveva scagliato un terribile anatema contro la mafia: «Dio ha detto una volta: non uccidere. Non può l'uomo, qualsiasi uomo, qualsiasi umana agglomerazione, mafia, non può cambiare e calpestare questo diritto santissimo di Dio. Nel nome di Cristo, mi rivolgo ai responsabili: convenitevi! Un giorno verrà il giudizio di Dio!». Senza precedenti era stato il discorso del Papa ad Agrigento e senza precedenti fu la risposta dei boss, da Roma, all'uccisione di padre Pino Puglisi.

SE OGNUNO FA QUALCOSA...

Chi era don Pino Puglisi? Lo chiedo a Maurizio Anale, il responsabile odierno del Centro Padre Nostro. «Era un prete diocesano che aveva una grande passione per Dio e, insieme, una grande passione per gli uomini. Io non ho lavorato con lui; sono arrivato qui a Brancaccio subito dopo la sua uccisione. Ricordo però che qualche mese prima della sua uccisione passai da questa strada che allora non frequentavo. Quella sera vidi il don che stava facendo una processione con il Santissimo, andava in giro per le strade con l'ostensorio. Mi fermai incuriosito perché una processione eucaristica ormai non si faceva più da nessuna parte. «Lui invece ci teneva, voleva che la comunità cristiana fosse uno spazio aperto, dove gli uomini e le donne imparassero che la regola del vangelo, la regola dell'eucarestia, è la condivisione e l'accoglienza». Siamo al Brancaccio, ottomila abitanti alla periferia meridionale di Palermo. Dappertutto case popolari e condomini. Non esistono giardini pubblici né attrezzature sportive. Una parte considerevole degli abitanti non ha lavoro stabile e vi è una grande percentuale di straccivendoli, manovali e venditori ambulanti. Che cosa fate, come operate in questo contesto? «Abbiamo due asili nido, tre case famiglia (due che si occupano di mamme e bambini maltrattati e la terza soltanto di bambini allontanali dall'autorità giudiziaria dalle loro famiglie), centri aggregativi per minori, adolescenti e anziani. Lo diciamo spesso: il Centro non vuole essere risposta immediata per nessuno, ma valuta in ogni caso le reali possibilità di coinvolgimento delle persone, degli operatori e delle istituzioni, rendendo efficace il principio "se ognuno fa qualcosa..."».Il quartiere, in questi anni, è cambiato o è rimasto come ai tempi di don Pino? «Venendo al Brancaccio uno potrebbe pensare che non è cambiato nulla, c'è sempre la solita sporcizia o la solita confusione. Chi invece è più attento vede che oggi c'è una scuola, una palestra, la biblioteca comunale, l'audi-torium Giuseppe Di Matteo, dove padre Puglisi celebrò l'ultima messa, prima abbandonato e poi grazie a noi ora rimesso in piedi. Certo, non è tantissimo e molto resta da fare. Stiamo cercando di fare un campetto di calcio per i ragazzi. Però le cose più importanti che sono successe e succedono al Brancaccio non si vedono per strada. Non vedete la mamma che è venuta al Centro Padre nostro prima di abortire e ci ha detto che Io faceva perché -erano in lanti e le condizioni economiche erano tragiche. Gli abbiamo dato una mano e tra una settimana Francesco, suo figlio, festeggerà qui i suoi quattro anni. Ecco, storie come queste sono tante e non si vedono. Ma ci sono».

A TESTA ALTA

Don Luigi Ciotti, fondatore del Gruppo Abele e Presidente di Libera, ha scritto che «Puglisi non è stalo ucciso perché dal pulpito della sua chiesa annunciava principi astratti, ma perché ha voluto uscire dalla loro genericità per testimoniarli nella vita quotidiana, dove le relazioni e i problemi assumono la dimensione più vera». E «coraggioso testimone del Vangelo», l'ha definito, due volle, Giovanni Paolo II. La memoria di don Pino è ancora viva qui a Palermo? «Sì -mi dice Maurizio -ma sempre in maniera conflittuale perché è stato visto come colui che con la sua uccisione ha messo un marchio su questo territorio. Brancaccio è stato il luogo dove la mafia ha ucciso un prete. È un dato incontrovertibile, ma che certamente da fastidio a chi vi abita. «Padre Puglisi non è stato ucciso perché ha detto cose fuori luogo. Lui era di Brancaccio, era nato a Brancaccio, conosceva la gente di Brancaccio. Quando, nelle sue omelie, diceva alle persone in chiesa che chi usa violenza non è un uomo, parla di famiglie ma-fiose e di gente conosciuta. Questo ha dato fastidio alla mafia. «C'è un libro di Bianca Stancanelli su don Pino che è veramente molto bello e si intitola "A testa alta". Don Pino camminava a testa alta, guardava negli occhi chi incontrava. Non li abbassava quando passava il boss, non voleva compiacere. Il giorno che gli hanno offerto di risistemare il centro ha detto di no perché, rispose, se avesse voluto farlo lo avrebbe fatto con le sue forze, con i volonta-ri, con i soldi della comunità. La mafia ha capito che era un sacerdote che non sarebbe mai sceso a compromessi, come talvolta invece è accaduto nel passato».

LA MAFIA SOMMERSA

Come è cambiata la mafia in questi anni? «Oggi la mafia ha scelto di scomparire. E mi spiego: dopo le stragi degli anni novanta la mafia capisce che deve usare un'altra tecnica, quella dell'immersione. Per continuare a fare affari, a colludere con i politici corrotti. Oggi, lo ripetiamo molto spesso, siamo in una società dove l'apparire è tutto. Una persona che vuole diventare qualcuno a tutti i costi è disposto a vendersi l'anima pur di diventare assessore, onorevole, deputato. «Per arrivare a quella meta c'è bisogno della mafia e del suo potere: quel tale avrà i voti necessari ma, una volta insediato, dovrà fare quanto gli viene chiesto. Questo è ciò che si è scoperto negli ultimi anni ed è ciò che è accaduto a molti assessori, deputati nazionali, deputati regionali, senatori collusi con la mafia. Se la mafia non fa più rumore, la gente non ha motivo di scendere in piazza e resta tranquilla, abbassa la guardia. «Oggi invece - aggiunge Maurizio - è cambiata questa sensibilità: la gente se vede un sopruso non lo accetta più e lo denuncia». Ma dove nasce il potere della mafia, su cosa si basa? «La gente ha fiducia nel mafioso perché se questi dice una cosa poi la fa. Il mafioso parla pochissimo, spesso non parla affatto, compie gesti, usa simboli che vengono subito compresi. Da qui l'importanza dell'istruzione, del lavoro... Se non hai un lavoro, come puoi combattere la mafia che invece il lavoro te lo offre?». E oggi, le istituzioni dove sono? chiedo infine a Maurizio. «Si stanno muovendo, anche se lentamente. Anzitutto affermando, con azioni concrete, che questo è territorio nazionale della Repubblica Italiana. Abbiamo dovuto aspettare ancora otto anni dopo la morte di don Pino per aprire una scuola al Brancaccio! «Invece, quando la mafia decide di fare un palazzo in una zona verde, a destinazione agricola, il palazzo viene costruito, perché la mafia trova i collusi al Comune che danno le autorizzazioni, perché foraggia la ditta che eseguirà i lavori, perché riscuote il pizzo, perché ha una serie di strumenti per poter fare quello che vuole. «Noi invece, abbiamo visto gente che è scesa in piazza per ridimensionare il nostro progetto di voler costruire, sul posto dell'omicidio di don Pino, un parco della rimembranza e della pace. Insomma, il nostro è un impegno quotidiano perché la memoria di padre Pino non venga meno. Soprattutto non venga meno tra i credenti la passione per Dio e la passione per gli uomini». Daniele Rocchetti

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